Viviamo l'errore come qualcosa di negativo da evitare e nascondere. Se lo ammettiamo e ne cerchiamo le cause, possiamo invece farne esperienza preziosa.
Sono abituata, per il mio lavoro, a frequentare congressi, seminari e conferenze, sia come ascoltatrice che come relatrice. Convegni di psicologia, ma anche di medicina, occupandomi prevalentemente di persone con gravi patologie organiche. Generalmente, in questi incontri c’è una parte dedicata alla discussione dei casi clinici. Ogni relatore riporta una situazione di cui si è occupato, la diagnosi, le scelte terapeutiche, fino alla brillante conclusione. Ciascuno ovviamente sceglie quel caso che gli è riuscito meglio, quello in cui ha avuto l’intuizione più arguta o quello con la particolarità che possa incuriosire o sorprendere. Di norma ne risulta quindi una sfilata di successi e il tutto si conclude tra applausi e complimenti del pubblico. È a questo punto che io faccio ogni volta, sistematicamente, lo stesso pensiero: quanto mi piacerebbe che, invece, il titolo di ogni relazione fosse “Il mio peggior errore", che – anzi -, un congresso intero fosse tutto dedicato agli errori! Quanto sarebbe più utile, quanto resterebbe più impresso nella mente di tutti, quanto più facilmente si trasmetterebbe un insegnamento a chi ascolta. E quanto aiuterebbe a cambiare la cultura con cui viviamo e interpretiamo l’errore: non un fallimento da vivere in solitudine, da occultare per non essere accusati e additati, ma un’esperienza su cui confrontarsi.